“Conclusione dell’Anno Sacerdotale”

 

Anno Sacerdotale

In occasione dell’incontro internazionale dei sacerdoti, a conclusione dell’Anno Sacerdotale, nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura, il 9 giugno 2010 a Roma, conferenza del Cardinale Joachim Meisner su: 

“Conversione e Missione”

Cari Confratelli!

Non cercherò certo di farvi una nuova esposizione sulla teologia della penitenza e della missione. Ma vorrei lasciarmi guidare,  insieme a voi,  dallo stesso Vangelo alla conversione, per poi essere inviati dallo Spirito Santo a portare agli uomini la buona Novella di Cristo.

 

Su questo cammino, vorrei ora percorrere con voi 15 punti di riflessione.

 

1. Dobbiamo nuovamente diventare una “Chiesa in cammino agli uomini” (Geh-hin-Kirche), come amava dire il mio predecessore, l’allora Arcivescovo di Colonia, il cardinale Joseph Höffner. Questo però non può accadere a comando. A ciò ci deve muovere lo Spirito Santo.

 

Una delle perdite più tragiche, che la nostra Chiesa ha subito, nella seconda metà del 20° secolo, è la perdita dello Spirito Santo nel sacramento della riconciliazione. Per noi sacerdoti ciò ha causato una tremenda perdita di profilo interiore. Quando dei fedeli cristiani mi chiedono: “Come possiamo aiutare i nostri sacerdoti?”, allora sempre rispondo: “Andate a confessarvi da loro!”. Laddove il sacerdote non è più confessore, diventa operatore sociale religioso. Gli viene, infatti, a mancare l’esperienza del più grande successo pastorale, quando cioè può collaborare affinché un peccatore, grazie anche al suo aiuto, lasci il confessionale nuovamente come persona santificata. Nel confessionale il sacerdote può gettare lo sguardo nei cuori di molte persone e da ciò gli derivano impulsi, incoraggiamenti ed ispirazioni per la propria sequela di Cristo.

 

2. Alle porte di Damasco, un piccolo uomo malato, san Paolo, viene gettato a terra accecato. Nella seconda Lettera ai Corinzi, egli stesso ci parla dell’impressione che i suoi avversari avevano della sua persona: era fisicamente scarno e di debole retorica (cfr. 2 Cor 10,10). Alle città dell’Asia Minore e dell’Europa, però, attraverso questo piccolo uomo malato, verrà annunciato, negli anni a venire, il Vangelo. Le meraviglie di Dio non accadono mai sotto i riflettori della storia mondiale. Esse si realizzano sempre in disparte; appunto, alle porte della città, come pure nel segreto del confessionale. Questo deve essere per tutti noi un grande conforto, per noi che abbiamo grandi responsabilità, ma allo stesso tempo siamo consapevoli delle nostre, spesso limitate, possibilità. Fa parte della strategia di Dio, quella di ottenere, mediante piccole cause, effetti di grandi dimensioni. Paolo sconfitto, alle porte di Damasco,  diviene il conquistatore delle città dell’Asia minore e dell’Europa. La sua missione è quella di radunare i chiamati nella Chiesa, dentro la “Ecclesia” di Dio. Anche se questa – vista dal di fuori – è soltanto una piccola e oppressa minoranza, viene sfidata dal di dentro, e Paolo la paragona al corpo di Cristo, anzi la identifica pure con il corpo di Cristo, che è appunto la Chiesa. Questa possibilità di “ricevere dalle mani del Signore”, nella nostra esperienza umana, si  chiama “conversione”. La Chiesa è la “Ecclesia semper reformanda”, ed in essa, sia il sacerdote come il vescovo sono un “semper reformandus”, che, come Paolo a Damasco, devono essere sempre di nuovo gettati a terra da cavallo, per cadere nelle braccia di Dio misericordioso, il Quale ci invia poi nel mondo.

 

3. Perciò non è sufficiente che nel nostro lavoro pastorale vogliamo apportare correzioni solo alle strutture della nostra Chiesa, per poterla rendere di una evidenza più attrattiva. Non basta! Ciò di cui c’è bisogno è un cambiamento del cuore, del mio cuore. Solo un Paolo convertito ha potuto cambiare il mondo, non già un ingegnere di strutture ecclesiastiche. Il sacerdote, attraverso il suo essere preso nello stile di vita di Gesù, è così abitato da Lui che lo stesso Gesù, nel sacerdote, diventa percepibile dagli altri. In Giovanni 14,23, leggiamo: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Questa non è solamente una bella immagine! Se il cuore del sacerdote ama Dio e vive nella grazia, Dio uno e trino viene personalmente per abitare nel cuore del sacerdote.

Certo, Dio è onnipresente. Dio abita dappertutto. Il mondo intero è come una grande chiesa di Dio, ma il cuore del sacerdote è come un tabernacolo in chiesa. Lì, Dio vi abita in modo tutto misterioso e particolare.

 

4. L‘ostacolo maggiore per consentire a Cristo di essere percepito, attraverso di noi, dagli altri, è il peccato. Esso impedisce la presenza del Signore nella nostra  esistenza e, per questo, per noi non c’è niente di più necessario che la conversione, e questa anche ai fini della missione. Si tratta, per dirlo in sintesi, del sacramento della penitenza. Un sacerdote che non si trova, con frequenza, sia da un lato che dall’altro della grata del confessionale subisce danni permanenti alla sua anima e alla sua missione. Qui scorgiamo certamente una delle cause principali della molteplice crisi in cui il sacerdozio si è venuto a trovare negli ultimi cinquant’anni. La grazia tutta particolare del sacerdozio è proprio quella che il sacerdote può sentirsi a “casa sua” in entrambi i lati della grata del confessionale: come penitente e come ministro del perdono. Quando il sacerdote si allontana dal confessionale, entra in una grave crisi di identità. Il sacramento della Penitenza è il luogo privilegiato per l’approfondimento dell’identità del sacerdote, il quale è chiamato a far sì che egli stesso e i credenti si stringano alla pienezza di Cristo .

 

Nella preghiera sacerdotale, Gesù parla ai suoi e al nostro Padre celeste di questa identità: “Io non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo come io non sono del mondo. Consacrali nella verità: la tua parola è verità ” (Gv 17,15-17). Nel sacramento della penitenza si tratta di fare la verità in noi. Come è possibile che non ci piace di guardare in faccia la verità?

 

5. Dobbiamo allora chiederci: non abbiamo ancora sperimentato la gioia di riconoscere un errore, ammetterlo e scusarci con chi abbiamo offeso? – “Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te” (Lc 15,18). – Non conosciamo la gioia di vedere, allora, come l’Altro allarghi le braccia come il papà del figliol prodigo: “suo padre lo vide venire da lontano, ebbe compassione di lui. E gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo baciò “(Lc 15,20). Non possiamo allora  immaginare la gioia del padre, che ci ha ritrovato: “e cominciarono a far festa” (Lc 15,24)? Dal momento che questa festa viene celebrata in Cielo,  ogni volta che ci convertiamo, perché allora non ci convertiamo più frequentemente? Perché – e qui parlo in maniera molto umana – siamo così  avari con Dio e con i santi del Cielo, da lasciar loro, così raramente, la gioia di celebrare una festa per il fatto che ci siamo lasciati stringere al cuore dal Signore, dal Padre?

 

6. Spesso non amiamo questo esplicito perdono. E tuttavia Dio non si mostra mai così tanto come Dio, come quando perdona. Dio è amore! Lui è il donarsi in persona! Egli dà la grazia del perdono. Ma l’amore più forte è quell’amore che supera l’ostacolo principale all’amore, cioè il peccato. La più grande grazia è l’essere graziati (die Begnadigung), e il dono più prezioso è il darsi (die Vergabung), è il perdono. Se non ci fossero peccatori, che avessero più bisogno del perdono che del pane quotidiano, non potremmo proprio conoscere le profondità del Cuore divino. Il Signore lo sottolinea in modo esplicito: “Io vi dico che anche in cielo c’è più gioia per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Come mai – domandiamoci ancora una volta – che un sacramento, che evoca così  grande gioia in Cielo, suscita così tanta antipatia sulla terra? Ciò è dovuto alla nostra superbia, alla costante tendenza del nostro cuore a trincerarsi, a soddisfare se stesso, ad isolarsi, a chiudersi su di sé. Cosa preferiamo in realtà: essere peccatori, che Dio perdona, o sembrare di essere senza peccato, vivendo cioè nell’illusione di presumersi giusti facendo a meno della manifestazione dell’amore di Dio? Basta davvero essere soddisfatti di se stessi? Ma cosa siamo senza Dio? Solo l’umiltà di un bambino, come l’hanno avuta i santi, ci lascia sopportare con letizia la disparità tra la nostra indegnità e la magnificenza di Dio.

 

7. Non è lo scopo della confessione che noi, dimenticando i peccati, non pensiamo più a Dio. Molto più la confessione ci consente l’accesso in una vita dove non si può pensare a nient’altro che a Dio. Dio ci dice nell’intimo: “La sola ragione per cui hai peccato è perché non puoi credere che io ti amo abbastanza, che mi stai veramente a cuore, che in me trovi la tenerezza di cui hai bisogno, che mi rallegro del minimo gesto che mi offri,  a testimonianza del tuo assenso, per perdonarti tutto quello che mi porti  nella confessione”. Sapendo di un tale perdono, di un tale amore, allora saremo come inondati di gioia e di gratitudine, così da perdere progressivamente il desiderio del peccato e il sacramento della riconciliazione diventerà un appuntamento fisso della gioia nella nostra vita. Andare a confessarsi significa: rendere l’amore a Dio un po’ più cordiale, sentirsi dire e sperimentare efficacemente, una volta di più – perché la confessione non è incoraggiamento solo dall’esterno – che Dio ci ama; confessarsi significa  ricominciare a credere  - e allo stesso tempo a scoprire – che fino ad ora non ci siamo mai fidati abbastanza profondamente e che, per questo, si deve chiedere perdono. Davanti a Gesù ci si sente come peccatori, ci si scopre come peccatori, che vengono meno alle attese del Signore. Confessarsi significa lasciarsi elevare dal Signore al suo livello divino.

 

8. Il figliol prodigo abbandona la casa paterna, perché è divenuto incredulo. Non ha più fiducia nell’amore del Padre, che esso lo soddisfi, e, quindi, esige la sua parte di eredità, per risolvere da solo tutto ciò che lo riguarda. Quando si decide a ritornare e a chiedere perdono, il suo cuore è ancora morto. Crede che non sarà più amato, che non sarà considerato più figlio. Solo per non morire di fame, ritorna. Questa la chiamiamo contrizione imperfetta! Ma il padre era da tanto tempo che lo aspettava. Da tanto tempo non c’è pensiero che gli dia più gioia di quello di credere che il figlio potrebbe ritornare a casa un giorno. Non appena lo intravvede, gli corre incontro, lo abbraccia, non gli da nemmeno il tempo di finire la sua confessione, e chiama la servitù per farlo vestire, nutrire e curare. Poiché gli si mostra un così grande amore, il figlio, in quel momento, lo comincia anche a risentire, lasciandosene colmare. Un pentimento inaspettato lo sopravviene. Questa è la contrizione perfetta. Solo quando il padre lo abbraccia, egli misura tutta la sua ingratitudine, la sua insolenza e la sua ingiustizia. Solo allora ritorna veramente, ridiventa figlio, aperto e confidente nel padre, ritrova la vita: “Tuo fratello era morto ed è tornato in vita” (Lc 15,32), dice il padre, a tal proposito, al figlio che era rimasto a casa.

 

9. Il figlio maggiore, “il giusto”, ha vissuto un simile cambiamento – così almeno vorremmo sperare che continui la parabola. Il caso di questo figlio è però molto più difficile.

 

Non si può dire che Dio ama i peccatori più che i giusti! Una madre ama il suo bimbo malato, al quale rivolge le sue cure particolari, non più che i bambini sani, che lascia giocare da soli, ai quali esprime il suo amore – non certo minore -, ma in modo diverso. Fino a quando le persone si rifiutano di riconoscere e confessare i propri peccati, fino a quando restano peccatori orgogliosi, a questi Dio preferisce gli umili peccatori.

 

 Con tutti ha pazienza. Anche con il figlio che è restato a casa il padre ha pazienza. Lo prega, e gli parla con bontà: “Figlio mio, tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo. Ora però dobbiamo rallegrarci e far festa” (Lc 15,31). Il perdono della insensibilità del figlio maggiore non viene qui neanche espresso, ma è implicito. Come deve essere grande la vergogna del figlio maggiore di fronte ad una tale clemenza. Aveva previsto tutto, ma non certo questa umile tenerezza del padre. Improvvisamente si trova disarmato, confuso, compartecipe della gioia comune. E si chiede come avrebbe potuto pensare di starsene di proposito in disparte, come avrebbe potuto, anche per un solo istante, preferire di essere infelice tutto da solo, mentre tutti gli altri si amavano e si perdonavano a vicenda. Per fortuna, il padre è lì e lo prende in tempo. Per fortuna, il padre non è come lui! Per fortuna, il padre è molto meglio di tutti gli altri messi insieme! Solo Dio può rimettere i peccati. Solo Lui può compiere questo gesto di grazia, di gioia e d’abbondanza di amore. Ecco perché il sacramento della penitenza è la fonte di permanente rinnovamento e di rivitalizzazione della nostra  esistenza sacerdotale.

 

10. Per me, perciò, la maturità spirituale di  un candidato al sacerdozio, a ricevere l’ordinazione sacerdotale, diventa evidente nel fatto che egli riceva regolarmente – almeno nella frequenza di una volta al mese – il sacramento della riconciliazione. Infatti è nel sacramento della penitenza che incontro il Padre misericordioso con i doni più preziosi che ha da dare, e cioè il donarsi (Vergabung), il perdono e il farci grazia. Ma quando qualcuno, a causa della sua mancanza di frequenza alla confessione, di fatto dice al Padre: “Tieni per te i tuoi preziosi doni! Io ho non bisogno di te e dei  tuoi doni”, allora smette di essere figlio, perché si esclude dalla paternità di Dio, perché non vuole più ricevere i suoi preziosi doni. E se uno non è più figlio del Padre celeste, allora non può diventare sacerdote, perché il sacerdote attraverso il battesimo è prima di tutto figlio del Padre e, poi, mediante l’ordinazione sacerdotale, è con Cristo figlio con il Figlio. Solo allora potrà davvero essere fratello degli uomini.

 

11. Il passaggio dalla conversione alla missione può in primo luogo mostrarsi nel fatto che io passo da un lato all’altro della grata del confessionale, dalla parte del penitente a quella del confessore. La perdita del sacramento della riconciliazione è la radice di molti mali nella vita della Chiesa e nella vita del sacerdote. E la cosiddetta crisi del sacramento della penitenza non è solo dovuta al fatto che la gente non viene più a confessarsi, ma che noi sacerdoti non siamo più presenti nel confessionale. Un confessionale in cui è presente un sacerdote, in una chiesa vuota, è il simbolo più toccante della pazienza di Dio che attende. Così è Dio. Egli ci attende tutta la vita.

 

Nei miei trentacinque anni di ministero episcopale conosco esempi struggenti di sacerdoti presenti quotidianamente in confessionale, senza che venisse un penitente; fino a quando, un giorno, il primo o la prima penitente, dopo mesi o anni di attesa, si è fatto finalmente vivo. Così, per così dire, si è sbloccata la situazione. Da quel momento il confessionale ha cominciato ad essere molto frequentato. Qui il sacerdote è chiamato a mettere da parte tutti i lavori esteriori di pianificazione della pastorale di gruppo, per calarsi nelle necessità personali di ciascuno. E qui non ha innanzitutto da parlare ma da ascoltare. Una ferita purulenta sul corpo può guarire solo se può sanguinare sino alla fine. Il cuore ferito dell’uomo può guarire solamente se può sanguinare fino in fondo, cioè fino a potersi sfogare del tutto. E ci si può sfogare solo se c’è qualcuno che ascolta, e cioè in quella assoluta discrezione del sacramento della riconciliazione. Per il confessore è importante prima di tutto non di parlare, ma di ascoltare. Quanti impulsi interiori sperimenta e riceve il sacerdote, proprio nell’amministrazione del sacramento della confessione, che gli servono per la sua sequela di Cristo. Qui egli può risentire e constatare quanto sono più avanti di lui, nella sequela di Cristo, semplici fedeli cattolici,  uomini, donne e bambini.

 

12. Se ci viene in gran parte a mancare questo essenziale ambito del servizio sacerdotale, allora noi sacerdoti cadiamo facilmente in una mentalità funzionalista o al livello di una mera tecnica pastorale. Il nostro esserci, da entrambi i lati della grata del confessionale, ci porta, attraverso la nostra testimonianza, a permettere che Cristo diventi percepibile per il popolo. Per dirla chiaramente, con un esempio in negativo: chi entra in contatto con del materiale radioattivo, diviene anche lui radioattivo. Se poi viene in contatto con un altro, allora anche questi verrà ugualmente infettato dalla radioattività. Ora però volgiamo l’esempio in positivo: coloro che entrano in contatto con Cristo, diventano “Cristo-attivi”. E se, allora, il sacerdote, essendo “Cristo-attivo”, viene in contatto con altre persone, queste saranno certamente “infettate” dalla sua “Cristo-attività”. Questa è la missione, così come è stata concepita ed era presente fin dall’inizio del cristianesimo. La gente si stringeva attorno alla persona di Gesù per toccarlo, e anche se fosse stato solo l’orlo del suo vestito. E pure quando questo avveniva mentre lui era girato di spalle, venivano guariti: “poiché c’era una forza che usciva da lui, che sanava tutti” (Lc 6,19).

 

13. A noi, invece, spesso le persone ci sfuggono,  non cercano più la nostra vicinanza per entrare in contatto con noi. Al contrario, come detto, ci sfuggono. Per evitare che questo accada, dobbiamo porci la domanda: con chi entrano in contatto quando vengono in contatto con me? Con Gesù Cristo,  nel suo sconfinato amore per l’umanità, oppure con qualche privata  opinione teologica o qualche lamentela sulla situazione della Chiesa e del mondo? Attraverso di noi, entrano in contatto con Gesù Cristo? Se questo è il caso, allora le persone si faranno vive. Parleranno tra di loro di un tale sacerdote. Si esprimeranno su di lui con simili termini: “Con quello lì si può parlare. Mi capisce. Può aiutare davvero”. Sono profondamente convinto che la gente ha una profonda nostalgia di tali sacerdoti, nei quali possono incontrare autenticamente Cristo, che li rende liberi da tutti i lacci, e li lega alla sua Persona.

 

14. Per poter perdonare veramente, abbiamo bisogno di tanto amore. L’unico perdono che possiamo realmente concedere, è quello che abbiamo ricevuto da Dio. Solo se abbiamo sperimentato il Padre misericordioso, possiamo diventare fratelli misericordiosi per gli altri. Colui che non perdona, non ama. Colui che perdona poco, ama poco. Chi perdona molto, ama molto. Quando lasciamo il confessionale, che è il punto di partenza della nostra missione, sia da un lato che dall’altro della grata, allora si vorrebbe proprio abbracciare tutti, per chieder loro perdono e questo avviene sopratutto dopo che ci siamo confessati. Io stesso ho sperimentato in modo così gratificante l’amore di Dio che perdona, da poter solamente chiedere con urgenza “Accogli anche tu il suo perdono! Prendine una parte dal mio, che ne ho ricevuto ora in sovrabbondanza. E perdonami che te lo offro così male!”. Con la confessione si ritorna dentro lo stesso movimento dell’amore di Dio e dell’amore fraterno, nell’unione con Dio e con la Chiesa, dal quale ci aveva escluso il peccato. Possiamo e dobbiamo amare tutti gli uomini, se Dio ci ha insegnato ad amare in modo nuovo. Se non fosse questo il caso, sarebbe un segno che non ci siamo confessati bene e che,  pertanto, dovremmo confessarci di nuovo.

 

Probabilmente il più grande padre confessore della nostra Chiesa è il Santo Curato d’Ars. Grazie a lui abbiamo l’anno sacerdotale e, quindi, il nostro attuale incontro come sacerdoti e vescovi con il Santo Padre, qui a Roma. Con questo santo parroco ho riflettuto sul mistero della santa confessione, giacché il suo quotidiano ministero della riconciliazione, nel confessionale ad Ars, lo ha fatto diventare un grande missionario per il mondo. Si è detto che come padre confessore ha vinto spiritualmente la Rivoluzione francese. Ciò che mi ha ispirato questo dialogo spirituale con Jean-Marie Vianney l’ho detto qui. Però, mi ha ricordato ancora qualcosa di molto importante.

 

15. Amiamo tutti, perdoniamo tutti! Attenzione però in questo a non dimenticare una persona! Esiste un essere, infatti, che ci delude e ci pesa, un essere col quale siamo costantemente insoddisfatti. E siamo noi stessi. Spesso ne abbiamo così abbastanza di noi. Siamo stufi della nostra mediocrità e stanchi della nostra stessa monotonia. Viviamo in uno stato d’animo freddo e anche con un’incredibile indifferenza a questo nostro prossimo più prossimo che Dio ci ha affidato, affinché gli facciamo toccare il perdono divino. E questo prossimo più prossimo siamo noi stessi. E’ detto, infatti,  che dobbiamo amare il nostro prossimo come noi stessi (cfr Lv 19,18). Quindi dobbiamo amare anche noi stessi, così come cerchiamo di amare il nostro prossimo. Allora dobbiamo chiedere a Dio di insegnarci che dobbiamo perdonare noi stessi: la rabbia del nostro orgoglio, le delusioni della nostra ambizione. PreghiamoLo che la bontà, la tenerezza, la pazienza e la fiducia indicibile con la quale Egli ci perdona, ci conquisti a tal punto che ci liberiamo dalla stanchezza di noi stessi, che ci accompagna dappertutto e, spesso, neanche ci causa vergogna. Non siamo in grado di riconoscere l’amore di Dio per noi, senza modificare anche l’opinione che abbiamo di noi stessi, senza riconoscere a Dio stesso il diritto di amarci. Il perdono di Dio ci riconcilia con Lui, con noi, con i nostri fratelli e sorelle e con tutto il mondo. Ci rende autentici missionari.

 

Lo credete, cari fratelli? — Provateci – oggi stesso!

 

+ Joachim Card. Meisner

 

Arcivescovo di Colonia

 

 

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