Il Padre Nostro e la sua traduzione
Il Padre Nostro e la sua traduzione (PDF)
di Don Massimiliano Pusceddu
Premesse
La notizia, riportata alcuni mesi fa dai giornali, secondo la quale la C.E.I. avrebbe studiato una riformulazione del testo italiano del Padre nostro ha suscitato sugli organi di stampa una serie di interventi di ampiezza e forma molto diverse. La maggior parte di tali interventi sono estemporanei e frutto di scarsa conoscenza dei problemi collegati a quella che è senz'altro la più nota preghiera cristiana. È tuttavia possibile che il tutto abbia provocato domande sul perché di tale possibile revisione o addirittura sconcerto. Il presente contributo, senza voler né poter affrontare tutte le problematiche coinvolte da tale notizia (ad esempio quella del rischio collegato ad ogni cambiamento di formule assestate nella liturgia e nella devozione) intende mostrare alcuni aspetti utili alla comprensione della preghiera insegnata da Gesù soprattutto in ordine alla sua traduzione italiana (i) .
A. Il contesto
Il Padre Nostro è presente, con notevoli variazioni, in due dei vangeli canonici, precisamente in Mt 6,9-13 e in Lc 11,2-4. Dato che le due versioni derivano senza dubbio da una fonte comune e che corrispondenti parole sono assenti in Mc, per i sostenitori della teoria detta "delle due fonti", si tratta di parole della fonte Q (ii). Oltre alle notevoli variazioni, di cui diremo in seguito, va sottolineato che esse vengono inserite dai due evangelisti in contesti del tutto diversi, cosa non rara per ciò che concerne il materiale di Q. La versione matteana, che è quella ben presto adottata dalla tradizione per la liturgia e la devozione, fa parte del cosiddetto Discorso del Monte (capitoli 5-7) e precisamente della seconda delle sue tre parti. Dopo le notissime beatitudini, la dichiarazione programmatica del proprio rapporto con la Tôrâ veterotestamentaria e la presa di posizione su sei rilevantissimi punti di tale legge, il Gesù matteano presenta tre ambiti centrali nella vita spirituale del giudeo devoto e atti perciò ad illustrare come il cristiano li debba vivere con uno spirito diverso. Si tratta delle opere di misericordia, della preghiera e del digiuno: è appunto all’interno dell’insegnamento sul modo corretto di pregare che si situa una vera e propria "catechesi", nella quale Gesù stesso insegna una concreta formula di preghiera. Si ripresenta perciò anche in questo caso una delle caratteristiche dominanti di questo vangelo, quella didattica e insieme pratica, di un vangelo cioè pensato per una comunità ben assestata, ma bisognosa di robusti ammonimenti. Nel caso della preghiera si tratta di contrastare la mentalità pagana consistente nel pensare di essere graditi a Dio e da Lui esauditi in proporzione al numero delle parole usate (6,7s). Non è senza importanza infine la circostanza che la preghiera insegnata da Gesù viene ad occupare praticamente il centro del Discorso del monte. Il contesto ampio entro il quale si viene invece a trovare il Padre nostro in Lc è, per coloro che ne accettano l’esistenza, quello del "racconto del viaggio" di Gesù verso Gerusalemme (9,51- 19,27). Il contesto immediato è una esemplificazione della "parola di Gesù" il cui ascolto devoto viene lodato dal Signore come bene che non passa, in occasione del dialogo con Marta e Maria (10,38-42). Il verso 11, infine introduce il Padre nostro lucano come risposta di Gesù alla richiesta di uno dei discepoli, che lo ha visto pregare, di insegnar loro a pregare come già Giovanni il Battista aveva insegnato ai suoi discepoli. Questa del Gesù in frequente lunga preghiera è una sottolineatura tipica del terzo evangelista.
B.Confronto sinottico
È indispensabile per il seguito avere presente una sinossi delle due versioni della preghiera insegnata da Gesù; per comodità ridiamo per entrambe la traduzione per ora adottata dalla CEI, sottolineando i termini non comuni: (Lc 11,2b-4) (Mt 6,9b-13) – (Potete confrontare le due citazioni nella Scrittura – suggerisco sempre la traduzione del 1974). Volendo esplicitare il risultato di questa sinossi, per chi non avesse dimestichezza con la lingua greca, va detto innanzi tutto che di conseguenza ha senso sottolineare solo le differenze più importanti tra le due versioni, tralasciando ad esempio le inversioni nell’ordine delle parole o le variazioni dei tempi verbali non immediatamente rilevabili in italiano (iii). Quanto alla petizione relativa al perdono dei peccati, la differenza tra le due versioni risulta molto più forte in italiano di quanto non sia nell’originale, dato che ivi l’unica differenza riguarda lo scambio tra i termini ¡μαρτίαι (Lc)/Ñfειλήματα (Mt), mentre tutti gli altri cambiamenti presenti nella versione italiana sono indotti da quell’unica diversità. Va segnalato infine che nella tradizione manoscritta sono presenti notevolissimi tentativi di armonizzazioni tra i due testi della preghiera di Gesù. Quasi tutti vanno nel senso di intergrare nel testo lucano, che è molto più breve, le espressioni matteane mancanti (iv).
C.Tenore originario
È generalmente ammesso da studiosi di tutte le scuole esegetiche che il Padre nostro risale direttamente a Gesù stesso, che lo insegnò dunque ai suoi discepoli nella sua lingua madre, l’aramaico. Esso infatti ottempera come pochi altri passi evangelici ai criteri che gli esegeti applicano per il rinvenimento dei cosiddetti ipsissima verba Iesu. In concetti tipici del giudaismo del I secolo tale preghiera sintetizza infatti la predicazione di Gesù, armonizza perfettamente con altre parole comunemente attribuite a Gesù e porta l’impronta della sua originalità, tanto che Tertulliano l’ha potuta qualificare "breviarium totius evangelii" (v) . Delle due versioni greche riportate rispettivamente da Lc e da Mt, che esprimono più o meno gli stessi concetti, si ritiene co-munemente che la diversità non debba venir spiegata con interventi personali dell’uno o dell’altro evangelista, ma che invece essi non facciano altro che registrare due forme della stessa preghiera in uso presso le proprie comunità e quindi ad essi preesistenti. Per ciò che concerne la vicinanza all’originale si ritiene comunemente che, quanto ai contenuti, sia la versione lucana più corta quella più vicina all’originale gesuanico, mentre, quanto alle formulazioni, sia invece quella matteana che mantiene di più il colore semitico dell’originale. Per quanto questa soluzione appaia strana a tutta prima, essa è coerente a caratteristiche peraltro ben note e comunemente accettate dei due evangeli in questione.
D.La struttura
La struttura delle due versioni è nella sostanza identica, semplice e facilmente individuabile. Ad una invocazione introduttiva ("Padre", con ampliamento in Mt) seguono due parti fatte entrambe di intenzioni di preghiera, di cui la prima serie avente per oggetto "cose di Dio" (spia linguistica il "tuo/tua"), la seconda avente per contenuto cose dell’orante (spia linguistica il "nostro/nostri"). Come già notato, la versione matteana è notevolmente più lunga: in essa sono tre le petizioni della prima serie, concluse dalla precisazione "come in cielo così in terra", mentre il testo lucano ne ha solo due (omettendo quella concernente la "volontà" di Dio e la conclusione). La seconda serie, che in Lc consta di tre petizioni, nella sostanza omogenee con quelle di Mt, ha in questo evangelo una continuazione ("ma liberaci…"), che alcuni qualificano come settima petizione, altri, ci pare più giustamente, interpretano come specificazione della sesta. È senz’altro probabile che la concreta recita di questa preghiera fosse conclusa con qualche formula secondo l’uso sinagogale. La tradizione manoscritta registra il fatto riportando diverse chiuse, la più famosa delle quali è una frase tratta da 1Cr 29,11-13 ("tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli [Amen]"). Nonostante questa variante sia di certo un’aggiunta posteriorevi, essa, attraverso il favore che godette nel mondo anglosassone e tedesco fino al secolo scorso il textus receptus, che la riporta, viene aggiunto ancor oggi dai protestanti nella recita del Padre nostro. La Chiesa cattolica di rito latino lo ha mantenuto nella S. Messa dopo il Padre nostro, come risposta del popolo alla preghiera del celebrante "Liberaci, o Signore".
E.Problemi di traduzione
Fatte tutte queste premesse, possiamo dedicarci a quelle espressioni della "preghiera del Signore" che paiono bisognose di chiarimenti o di riformulazioni. Si tratta ovviamente di considerare in prima istanza la versione matteana, perché essa è quella che attraverso l’uso sia liturgico che individuale si è imposta nel cristianesimo. Pensiamo che una traduzione ottimale debba avere almeno le due seguenti caratteristiche: essere quanto più fedele all’originale e al tempo stesso il più comprensibile da parte di chi la usa. Soprattutto a motivo del suo uso liturgico, sarebbe bene poi che una eventuale nuova traduzione della "preghiera del Signore" avesse un certo livello estetico. Nei confronti del Padre nostro incontriamo difficoltà notevoli nei confronti di entrambi i primi due requisiti. Può ottemperare infatti al primo criterio solo chi ha capito perfettamente che cosa l’originale intende dire. È possibile d’altronde che, pur sicuri di aver ben capito l’originale greco, anche la miglior formulazione nelle nostre lingue si presti a notevoli oscurità o malintesi. Entrambe le difficoltà sono presenti nella traduzione italiana attualmente in uso. Naturalmente il Padre nostro, come e forse di più di altri passi biblici, non può essere compreso a fondo e gustato nelle sue ricchezze se non attraverso lo studio e l’approfondimento che può scaturire solo da una quotidiana frequentazione. È tuttavia dovere della Chiesa presentare un testo il più vicino possibile al senso originale e che al tempo stesso non renda la sua comprensione più difficile di quanto non inerisca per loro natura a testi evangelici, che possa essere convenientemente usato nella liturgia e che possa venir capito, seppur ad un primo livello di comprensione, anche dai lontani e dai non credenti.
1. "Che sei nei cieli"
Questa aggiunta matteana è una piccola sintesi della concezione che l’AT e la teologia giudaica hanno di Dio e qui ha inoltre la funzione di completare e correggere una eventuale comprensione superficiale dell’invocazione "Padre nostro" che precede. Il cielo è considerato dall’uomo antico inaccessibile ai mortali; esso è dunque una specie di alternativa alla terra, che è il luogo proprio dell’uomo. In sé e per sé il Dio biblico è assolutamente superiore ad ogni altra realtà; il rapporto tra Lui e tutto il resto viene formulato in termini di creazione gratuita da un nulla preesistente. Anche la sua essenza è del tutto diversa da quella delle cose create: Egli è senza tempo, la sua potenza infinita, la sua volontà santa; Israele lo chiama Signore del cielo e della terra. La filosofia cristiana riassume tutte le qualità, formulate in modo spesso immaginifico e progressivo nella S. Scrittura, asserendo che Dio "trascende" ogni realtà creata. Questa infinita distanza vuole formulare il giudeo devoto quando dice che YHWH "abita i cieli" o simili espressioni. Il ricordo, in Mt 6,9b, di questa "trascendenza" divina sùbito dopo l’invocazione "Padre" (che nell’originale aramaico ’abbā’ suona molto più confidenziale, più vicino al "babbo" di alcune regione italiane) serve a portare a coscienza quanto inaudita sia tale "confidenza", già presente nel giudaismo, ma insegnata e portata fino alle ultime conseguenze da Gesù (vii). Il senso della prima frase del Padre nostro è dunque così formulabile: "O Signore, che, per quanto a noi infinitamente superiore (trascendente), hai voluto essere nostro padre amorevole". È purtroppo senz’altro possibile che la nostra generazione, inconsciamente solidale con la ben nota battuta di Gagarin, l’astronauta russo che, di ritorno da un viaggio spaziale, dichiarò di non aver visto alcun Dio in cielo, e ormai abituata ai satelliti artificiali e alle passeggiate spaziali, sia portata a fraintendere l’espressione attuale "che sei nei cieli", anche se non ci pare facile sostituirla con un’altra che, senza perdere il suo spessore poetico, ne esprima i contenuti essenziali in forma corretta ma rispondente alle esigenze contemporanee.
2. "Sia santificato il tuo nome"
Questa è senza dubbio l’espressione più oscura dell’attuale testo italiano, benché l’originale sia del tutto chiaro per chi è addentro alla spiritualità giudaica. Nel linguaggio religioso contemporaneo si parla di santificare la propria giornata, o le feste, ma mai un nome. Ci si chiederà anche se non sia addirittura irriverente l’idea che si possa aggiungere qualcosa alla santità anche solo del nome di Dio e così via. In realtà, qui e nell’invocazione seguente ("venga il tuo regno"), siamo di fronte a parole non create da Gesù, ma già ampiamente usate dalla devozione giudaica, ad esempio nella nota preghiera detta Qaddiš. Si tratta di una delle poche preghiere aramaiche arrivate fino a noi, perché essa veniva recitata alla fine del servizio sinagogale come risposta all’omelia, che era in aramaico. Si tratta di una preghiera di contenuto escatologico del tutto coerente all’attesa del regno messianico. Fa parte di tale regno futuro il riconoscimento della maestà vittoriosa di Dio, che (in analogia con i vincitori di questo mondo) si esplicita anche nella lode verbale, nella prostrazione, nell’acclamazione gioiosa. In altri testi si parla degli uomini, di solito dei soli israeliti e in maniera particolarissima dei martiri, che "santificano il nome di Dio", intendendo dire che essi rispettano la sua volontà anche a costo della propria vita. Quanto al "nome", già nell’AT tale termine ha una gamma semantica amplissima e quasi mai neutrale: riferito poi a Dio significa spesso la sua potenzaviii e la sua dignità; in non pochi testi biblici e giudaici infine (ad essi appartiene anche il nostro verso) il termine sta per Dio stesso (nella liturgia sinagogale: haššēm), come uno dei tanti modi per evitare di pronunciare il tetragramma divino (ix). La "santità" di Dio, di cui si parla spesso nell’AT (cf. specialmente Is 6,1ss), è molto di più di un attributo morale: essa qualifica in ultima analisi l’essere stesso di YHWH, separato da e infinitamente superiore ad ogni altro esistente. La prima petizione del Padre nostro allora costituisce praticamente un doppione della seconda e si situa nei suoi confronti in un parallelismus membrorum di tipo sinonimico né differisce molto dalla terza. Il senso globale della frase in questione è dunque assai pregnante e difficilmente formulabile in poche parole. Potremmo sintetizzarlo così: "gli uomini facciano la tua volontà, anzi venga quel tempo, l’eone finale e definitivo, nel quale la tua santità sarà riconosciuta, rispettata e proclamata da tutti".
3. "Come in cielo così in terra"
Questa frase, che conclude la prima parte della preghiera del Signore, è per sé chiara e capibile, ma gli studiosi si chiedono se essa vada riferita alla sola ultima petizione, quella relativa alla volontà di Dio, o non piuttosto a tutte e tre le petizioni che precedono. La maggioranza degli esegeti pare propendere per quest’ultima alternativa, che a noi invece pare poco probabile, perché si adatterebbe senz’altro alla prima, ma non alla seconda petizione, quella relativa alla venuta del Regno, una volta che si intenda, come di certo in bocca a Gesù, tale realtà come in sé e per sé futura, come evento escatologico che irrompe sì, ma non preesiste, per così dire, in cielo. Dato comunque che l’interpretazione di tali parole non crea problemi di traduzione né è conveniente specificare la cosa fino ad escludere un senso o l’altro, pensiamo non sia il caso di insistere ulteriormente.
4. "Il pane quotidiano"
Nonostante questa sia probabilmente l’espressione più "simpatica" del Padre nostro, il significato del termine greco tradotto con "quotidiano" (™πιoύσιoς) costituisce in realtà una vera e propria crux interpretum, a partire da Origene e Gerolamo fino ai giorni nostri. Questo aggettivo, l’unico nel corso del Padre nostro, anche se non fu inventato dalla tradizione evangelica, di certo fu rarissimo nella grecità precristiana (x) . D’altronde anche nel NT esso è usato solo nei due testi che stiamo analizzando e la sua etimologia è molto discussa. In questo contesto sarà sufficiente ricordare i principali significati, quasi mai contraddittori, ma anzi non di rado implicantisi, proposti nel corso della storia dell’esegesi (senza sfumature e particolari spiegazioni): 1) "necessario per vivere" (Origene, Crisostomo, Gerolamo, Beza, Ewald, B. Weiß, Billerbeck, Foerster, ecc.); 2) "(pane) per domani" (oltre a quelli nominati sotto, Wettstein, Zahn, J. Weiß, Klostermann, ecc.); 3) "quotidiano" (Itala, Debrunner); 4) "(pane) del grande domani di Dio", cioè "(pane) finale, escatologico" (Eisler, A. Schweitzer, J. Jeremias e altri); 5) "in abbondanza"; 6) "sicuro, durevole" (versioni siriache); 7) "(pane) eucaristico". Molti esegeti contemporanei (J.Jeremias, Grundmann, Maggioni, ecc.) ritengono più probabile la seconda traduzione ("per il domani"), con varie interpretazioni. E ciò innanzi tutto per la testimoninaza di Gerolamo che, nel suo commento a Mt 6,11, afferma di trovare nel Vangelo degli ebrei (o dei nazareni) (xi), per il greco ‘πιoύσιoς, l’aramaico “maàar, quod dicitur crastinum". Inserito nel contesto matteano, che ha "oggi" al posto del lucano "ogni giorno", tale significato produrrebbe poi un ottimo effetto retorico di contrasto: "il pane di domani, daccelo già oggi!", puntualmente registrato anche da Gerolamo ("ut sit sensus: panem nostrum crastinum, id est futurum, da nobis hodie"). Questa traduzione, che a prima vista può suonare un po’ macchinosa, è credibile in bocca ad un umile lavoratore a giornata della Galilea, dal domani incerto. Va da sé che essa invece si adatta dimeno al contesto lucano, che ha "ogni giorno" invece di "oggi" e conseguentemente un imperativo presente di senso iterativo (δίδoυ) al posto di un aoristo (δός). Concretamente, data la situazione di "stallo" tra le varie traduzioni proposte, data la mancanza nella lingua italiana di un aggettivo dipendente da domani (del tipo del latino crastinus o del tedesco morgig) e data la buona vaghezza del termine "quotidiano", riterremmo conveniente lasciare il testo usuale.
5. "Debiti e debitori"
Questo è un ulteriore caso in cui il senso è del tutto chiaro nell’originale matteano e che potrebbe prestarsi a qualche malinteso nella traduzione italiana. Mt usa in tutta la quarta petizione una metafora aramaica per "peccato", quella del "debito" (aram. àobā’), metafora ben nota nella letteratura rabbinica. L’idea soggiacente e facilmente capibile è che la fedeltà a Dio è qualcosa di dovuto e le eventuali infrazioni umane dei "debiti" non estinguibile da parte dell’uomo (cf. la parabola dei due servitori Mt 18,23-35). Luca, che costantemente cerca di chiarire le sue fonti per il lettore ellenista, interviene solo una volta nella frase, sostituendo a "debiti" il termine proprio "peccati", ma lasciando tutte le altre radici tratte dall’ambito economico. Forse sarebbe opportuno, in questo punto, seguire la versione lucana e tradurre "perdona a noi i nostri peccati ecc.".
6. "Rimettiamo" o "abbiamo già rimesso"?
È questo l’unico punto in cui la traduzione latina (dimittimus) e di conseguenza quella italiana tradizionale (rimettiamo), almeno a prima vista, seguono il testo lucano e non quello matteano. Infatti, mentre quest’ultimo ha l’aoristo ¢φήκαμεn, che va tradotto con "abbiamo rimesso o perdonato", Lc 11,4 ha il presente ¢φίoμεn (xii). In questo caso tuttavia non c’è dubbio che le difficoltà, formulate soprattutto da esegeti protestanti, non nascono né da problemi linguistici intrinseci del testo né da eventuali ostacoli della mentalità contemporanea. Per motivi teologici si trova ostico ammettere che il perdono umano preceda o addirittura sia modello ("così come noi…") di quello divino (xiii). Sono state formulate all’uopo ipotesi sul possibile originale aramaico allo scopo di ottenere almeno una contemporaneità anche per la versione matteana, sulle quali qui possiamo sorvolare. Anche in questo caso ci pare che l’attuale testo italiano possa essere conservato, data tra l’altro la sua vaghezza, rimandando alla teologia e alla catechesi la soluzione del delicato problema dei rapporti causali tra il perdono divino dei nostri peccati e quello umano delle offese ricevute. Che tuttavia una precedenza temporale del nostro perdono, intesa ovviamente come condizione e non come esempio o addirittura causa di quello divino, non sia così impensabile al di dentro della teologia di Mt lo si può dedurre dal fatto che essa viene esplicitamente affermata nel seguito del testo (cf. Mt 6,14-15).
7. "Non c’indurre in tentazione"
Nei confronti di questa formulazione, l’unica espressa al negativo del Padre nostro, è frequente sentirsi domandare anche oggi e da cristiani colti: "ma come può il Dio infinitamente buono di Gesù tentare l’uomo?" o "non è forse il demonio che tenta l’uomo?". Anche in questo caso, molti dei problemi realmente presenti o solo evocati da questo testo evangelico vanno chiariti e approfonditi dalla teologia e le soluzioni corrette esposte ai fedeli nella predicazione e nella direzione spirituale (xiv). Quanto ai problemi di traduzione, essi sono nella sostanza due, variamente collegati. Innanzi tutto quale sia, qui, il senso del termine greco πειρασμός. Al di dentro della letteratura biblica non è necessario dare a tale termine una connotazione moralmente negativa ("sollecitazione al male") e quindi inapplicabile a Dio. Il termine può avere anche il senso di "prova, esame morale e simili"(xv), col che la nostra frase esprimerebbe l’umile riconoscimento della propria debolezza e la preghiera che Dio, al di dentro del suo piano provvidenziale, ci eviti quelle prove che tuttavia la tradizione biblica senz’altro mette in conto, in abbondanza, per tutta la vita e proprio per volontà divina, come esprime la nota sentenza di Gb "una continua prova (LXX: πει- ρατήριon; Vulg.: tentatio) è la vita dell’uomo sulla terra"(xvi). Molti esegeti ricorrono in proposito ad un senso figurato-escatologico del termine greco, riferendolo alla "grande tentazione finale", quella cioè collegata agli ultimi tempi e all’apparizione dell’Anticristo. Pur essendo tale significato ovviamente possibile, lo riteniamo improbabile e poco conforme al contesto, che ha appena parlato di pane quotidiano e di perdono di offese ricevute. Una seconda pista per eliminare la difficoltà è quella di riformulare il verbo, interpretando il verbo ™iσφέρω, ivi usato all’aoristo congiuntivo, come permissivo, col che si otterrebbe il senso "non permettere che entriamo (in tentazione)" oppure addirittura "non permettere che cadiamo in preda o soccombiamo alla tentazione". Questa soluzione basata sulla reinterpretazione del verbo viene combinata da diversi studiosi con il significato escatologico di πειρασμός ricordato sopra, ottenendo così la traduzione "non permettere che soccombiamo nella prova finale"xvii. In questo caso il problema della traduzione si presenta particolarmente intricato. Non ci sono vere prove che il senso della petizione abbia per oggetto la prova ultima, la tentazione escatologica. Ci sono inoltre nella S. Scrittura tante altre frasi nelle quali la distinzione tra volontà diretta e volontà permissiva di Dio non è rispettata, supposto che essa convinca fin in fondo. Anche l’idea che la forma verbale greca usata da Matteo sia da intendere in senso permissivo non si impone al di là di ogni dubbio. È d’altronde innegabile e di non poco momento l’utilità di ricordare ai cristiani che la fedeltà a Dio si dimostra normalmente e continuamente nelle prove e nelle tentazioni. Dato infine che alcune delle formulazioni proposte sono piuttosto contorte, pensiamo che si possa al massimo attenuare la difficoltà del testo traducendo: "non permettere che soccombiamo nelle tentazioni" oppure semplicemente lasciando il testo in uso fino ad oggi, anche in questo caso rimandando il chiarimento di eventuali difficoltà alle sedi opportune.
8. "Liberaci dal male o dal Maligno"?
L’alternativa nasce dal fatto che il genitivo πovηρoà presente nell’originale solo matteano (xviii) può derivare da un maschile (il maligno, cioè il diavolo) oppure da un neutro (il male). Da un punto di vista puramente grammaticale le due traduzioni sono equiprobabili. Anche la traduzione latina (libera nos a malo) poteva evitare di sciogliere il dubbio. Ciò è invece inevitabile per l’italiano, che finora aveva scelto la seconda delle possibilità. Tra gli esegeti pare di dover registrare una certa prevalenza per la prima traduzione (il demonio), che sembra più probabile in bocca a Gesù, analogamente ad altri detti matteani (5,37; 13,19; 13,38). Anche in questo caso tuttavia non si può sostenere che il concetto di male sia impensabile in bocca ad un ebreo dell’antichità: in Mt 5,11; 9,4; 12,35c il senso personale è escluso e il termine greco in questione può voler dire solo "male morale". Il fatto che la mentalità moderna trovi una certa ripugnanza nel prendere sul serio parole come "demonio" o "diavolo" potrebbe addirittura far propendere per inserirlo in una nuova traduzione italiana. Tanto più se si tien presente che per la teologia biblica il demonio, pur non essendo l’unica causa delle tentazioni umane (tali sono anche gli altri uomini cattivi e in più la propria stoltezza!), è pur sempre il "nemico della natura umana" per antonomasia.
NO T E
i. Per ulteriori approfondimenti consigliamo, oltre ai consueti commentari ai vangeli di Matteo e di Luca, i seguenti studi: E. BROWN, "The Pater Noster as an Eschatological Prayer" in Theological Studies 22 (1961) 175-208; H. SCHÜRMANN, La prière du Seigneur à la lumière de la prédication de Jésus, Paris 1964 (trad. it. Il Padre Nostro alla luce della predicazione di Gesù, Roma 1967); J. DUPONT/P. BONNARD, "Le Notre Père: notes exégétiques" in La MaisonDieu 85 (1966) 7-35; J. JEREMIAS, Abba. Studien zur neutestamentlichen Theologie und Zeitgeschichte, Göttingen 1968, spec. 152-171 (trad. it. Brescia 1968); ID., Paroles de Jésus. Le sermon sur la montagne. Le notre-Père, Paris 1967, 61ss; H. KRUSE, "Pater Noster et Passio Christi" in Verbum Domini 46 (1968) 3-29; CARMIGNAC, Recherches sur le Notre Père, Paris 1969; J. JEREMIAS, Neutestamentliche Theologie, Gütersloh 1971, I, 188-196 (trad. it.: Teologia del Nuovo Testamento, [Biblioteca teologica 8], Brescia 1972, spec. 222-233); R. FABRIS, Padre nostro, preghiera dentro la vita, Roma 1984; B. MAGGIONI, Padre nostro, (Sestante 7), Milano 1995.
ii. Di tale fonte fanno parte circa 250 versi di Lc. Dato che Mc, che sarebbe l’altra fonte, nella versione corta (cioè senza il finale "canonico") ha 661 versi, le dimensioni della fonte Q sarebbero di circa un terzo di Mc. Essa è formata quasi esclusivamente da parole di Gesù, ragion per cui fu detta dai suoi ideatori tedeschi Logienquelle.
iii. Solo una sinossi greca può mettere in risalto ad esempio il fatto che il "dacci" traduce un aoristo in Mt (δός) e un presente in Lc (δίδoυ).
iv. Nel testo lucano testimoni di tutte le famiglie aggiungono ad esempio all’invocazione "Padre" l’apposizione matteana "che sei nei cieli" e ancora di più sono i manoscritti che inseriscono nella versione di Lc la frase "sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra". In tutti i casi i critici testuali sono unanimi nel qualificare conformi all’originale i testi privi di tali parole secondo la regola "lectio brevior est potior", considerando tali operazioni come aggiunte dettate dal desiderio di uniformare il testo lucano a quello più armonioso e simmetrico (e consacrato dall’uso liturgico) di Mt. Tra l’altro in entrambi i casi il testo più breve di Lc è sostenuto dal papiro 75 e dal codex Vaticanus, coppia che la maggior parte degli studiosi ritiene garanzia del miglior testo. Per una presentazione e discussione delle più importanti varianti, ivi comprese quelle usate dai Padri della Chiesa cf. B.M. METZGER, A Textual Commentary on the Greek New Testament, London/New York 1975, pp. 16s e 154-156.
v. Cf. De oratione 1,6 (=CCSL 1,258). Lo stesso concetto, più diffusamente, in Cipriano, De oratione dominica 9 (=CSEL 3, 1, 272).
vi. Ma molto antica, dato che essa è già presente nella versione della oratio dominica riportata dalla Didachè (8,2-3). 10
vii.Opportunamente l’introduzione al Padre Nostro della liturgia latina parlava di "audemus".
viii. Così ad esempio in Sal 54,3a a motivo del parallelismo con la radice gbr nella seconda parte del verso.
ix. Così già ad esempio Lev 24,11.16, poi Dt 12,5.21; 14,24; 2Cr 6,20 ecc. e, per la letteratura rabbinica, Sanh VII,5; Be r IX,5; Yom III,8; IV,2; VI,2 ecc. Cf. l’esaustiva trattazione del tema all’interno della voce š’m/NOME in E.JENNI/C.WESTERMANN, Dizionario teologico dell’Antico Testamento, Casale M. 1992, II, 845-869.
x. L’unica ricorrenza precristiana nota a tutt’oggi è quella (peraltro essa stessa incompleta) registrata dal Preisigke nel suo Sammelbuch griechischer Urkunden aus Ägypten I, Straßburg 1915, Nr.5224,20, tratta da un papiro, contenente una lista di spese, ora purtroppo andato smarrito. Origene dichiara che il termine non gli consta esistere né nella lingua dotta né in quella profana.
xi. Cf. Nr. 62, r. 42. Si tratta di una traduzione aramaica di tipo targumico del vangelo di Matteo, a meno di frammenti purtroppo perduta.
xii. Anche in questo caso la traduzione manoscritta registra il problema: molti anche antichi manoscritti (oltre alla Didachè) sostituiscono l’aoristo matteano con il presente, mentre altri usano in Lc un tempo del passato al posto del presente.
xiii. Lo Jeremias, a proposito del testo matteano, arriva a dire che esso ha "quasi l’effetto di un corpo estraneo", s’intende allo spirito del Padre nostro (Neutestamentliche Theologie, cit. 195).
xiv. Tutta questa problematica è presente già in Gc 1,13 ("nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio». perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male ecc…"). È chiaro che qui si intende "tentazione" nel senso di "sollecitazione al male morale".
xv. Così ad esempio in Sir 6,7; 27,5.7; 1Pt 4,12 e nel Pastore di Erma 39,7.
xvi. All’incirca lo stesso esprime un agraphon riportato da Tertulliano in De baptismo 20,2 : "neminem intemptatum regna caelestia consecuturum"; cf. anche Gen 21,1 e soprattutto Mt 4,1 ("lo Spirito condusse Gesù nel deserto perché fosse tentato dal diavolo"). xvii. Così ad es., di certo sulla scorta di Bultmann, Schürmann e Jeremias, Barbaglio e Fabris. xviii. Ma anche in questo caso, di certo per parallelismo, moltissimi manoscritti inseriscono la frase anche nel testo lucano.