19 marzo: San Giuseppe
San Giuseppe appartiene alla famiglia di quei piccoli del Vangelo, umili e discreti, che non occupano molto spazio, si muovono con leggerezza, sono creature che, mentre vivono nell'ombra, esprimono una luce interiore che rende meravigliosa la loro presenza.
Era ancora piccolino Gesù quando, per la prima volta, balbettò abbà: lo fece guardando Giuseppe, il suo papà. Il papà che, insieme con Maria, lo accudiva e proteggeva, lo faceva sentire al sicuro, amato. In questo mese la Chiesa fa memoria proprio di Giuseppe, di quest’uomo che resta sempre un po’ in ombra, nei Vangeli e nella predicazione. Se ci accostiamo all’ombra, però, lo possiamo vedere e conoscere meglio: somiglia a noi, e ha molto da insegnarci.
Giuseppe, che nei Vangeli non pronuncia neppure una parola, si presenta come l’uomo che ascolta. Ascolta, in silenzio, la sua amata Maria che gli racconta cosa le è accaduto. Ascolta e riflette. Non sa come comportarsi: rispettoso della Legge, potrebbe ripudiarla, ma – poiché l’ama – pensa di farlo in segreto per non esporla a un rifiuto pubblico come fosse adultera; però non è soddisfatto della soluzione. In sogno, l’angelo lo incoraggia: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Con queste parole è come se l’angelo dicesse: «Non temere, continua a volerle bene, pieno compimento della Legge è l’amore». E Giuseppe scopre una dimensione grande: il sogno di Dio che vuole intrecciarsi con i suoi sogni di uomo innamorato.
Osserva il padre servita Ermes Ronchi: «La paura, principio di ogni fuga, è il contrario della fede, del matrimonio, della paternità. Giuseppe non ascolta la paura, diventa vero padre di Gesù, anche se non ne è il genitore. Generare un figlio è facile, ma essergli padre e madre, amarlo, farlo crescere, farlo felice, insegnargli il mestiere di uomo, questa è tutta un’altra avventura». Giuseppe dice «sì» a questa avventura, e ci insegna a tenere il cuore aperto all’amore e al mistero, ad ascoltare la Parola di Dio, scacciando i timori che frenano la vita buona e ostacolano i legami più veri per i quali siamo fatti.
Giuseppe è l’uomo di fede che obbedisce. Ogni essere umano deve scegliere di chi fidarsi e a chi obbedire: «Si può decidere di dare fiducia e obbedire al denaro, al tiranno di turno, ai potenti, al proprio desiderio di primeggiare, come spesso accade oggi, oppure a Dio», spiega il biblista monsignor Bruno Maggioni. «Giuseppe sceglie Dio: capisce il senso delle Sue parole. Spieghiamolo alle giovani generazioni: Dio non è un padrone che dà ordini nel proprio interesse, ma un Padre che vuole il bene di ogni singolo figlio. I Suoi comandi servono a noi, non a lui: sono istruzioni per la vita, necessarie per capirne il senso e le possibilità buone che la abitano».
Per tre volte Giuseppe si mette in ascolto, e poi agisce: ogni volta l’annuncio è parziale, una piccola rivelazione, eppure egli per muoversi non chiede di avere tutto chiaro, di vedere l’orizzonte, ma solo tanta luce quanto basta al primo passo. A chi vorrebbe sapere tutto con chiarezza prima di seguire Gesù, Giuseppe mostra che Dio non fa mai mancare la luce, quella che serve a compiere il primo passo nella direzione che è giusta e buona. Giuseppe agisce mettendo in gioco tutto se stesso. Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, ha scritto: «L’obbedienza di Giuseppe non ha nulla dell’obbedienza di chi si lascia trascinare dagli eventi. La fede cristiana, infatti, è quanto di più opposto ci sia al conformismo, all’inerzia interiore. Giuseppe si abbandonò senza riserve all’azione di Dio, ma non si rifiutò mai di riflettere sui fatti, e in tal modo ottenne dal Signore quel grado di intelligenza delle opere di Dio che costituisce la vera sapienza».
Solido nelle difficoltà
Giuseppe è l’uomo che lavora. Mantiene Maria e Gesù, servendo la comunità che infatti lo conosce bene (cfr. Mt 13,55). Vive di ciò che gli commissionano di giorno in giorno, come accade oggi a molti lavoratori, privi della sicurezza dello stipendio fisso. È un uomo che conosce la precarietà del lavoro e, in più, le mille difficoltà che comporta dover cominciare daccapo l’attività due volte, prima in terra straniera, l’Egitto, poi a Nazareth. Potremmo dire, con linguaggio dei nostri giorni, che è un precario. Ma non molla, tiene duro nei momenti difficili, assumendosi sino in fondo la responsabilità della famiglia che si appoggia a lui, sapendo intuire quel filo rosso che unisce gli eventi, quel filo rosso che Dio tiene saldamente in mano. Giuseppe ci insegna che si può essere solidi anche se precari, solidi in favore di altri, ci insegna a non cedere allo scoraggiamento, ci mostra la dignità e la nobiltà del lavoro che sostiene i propri familiari ed è a servizio della comunità. Bisogna fronteggiare l’idea, oggi largamente diffusa, che esistano professioni più prestigiose di altre. Non è vero. Qualunque attività, svolta al meglio delle proprie capacità, a favore del bene della società, è nobile e meritevole del più alto rispetto.
Giuseppe è l’uomo che sa fare famiglia. Nei Vangeli dell’infanzia è un padre che c’è per Gesù. È lui che gli dà il nome, che lo introduce – bambino – alla vita religiosa, che gli insegna un mestiere avviandolo alla vita professionale. Giuseppe è un padre e un marito presente. È al fianco di Maria: insieme custodiscono Gesù appena nato, lo presentano al tempio, lo crescono, lo conducono a Gerusalemme. Insieme, nella quotidianità, Giuseppe e Maria mostrano a Gesù i gesti, le tenerezze, gli sguardi, le sorprese, i sacrifici dell’amore. Alleati nell’educazione alla vita, nel silenzio di Nazareth gli mostrano che cosa vuol dire «prendersi cura».
A Giuseppe non sono risparmiate le preoccupazioni: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» dice Maria a Gesù dopo averlo finalmente trovato nel tempio di Gerusalemme (Lc 2,41-52). Annota Maggioni: «Molti genitori vorrebbero imporre al figlio i loro progetti di vita. È un errore. Questo episodio ci fa capire due cose importanti: anzitutto che i genitori devono sempre parlare e ascoltare il figlio senza mai interrompere il dialogo, e poi che il loro compito è mettersi a servizio dei suoi progetti di vita. Gesù rivela qual è la sua strada e neppure la sua famiglia potrà cambiarla, ma solo sforzarsi di capirla».
L’uomo della generazione
Giuseppe è l’uomo della generazione. All’inizio del Vangelo di Matteo vi è una lunga genealogia (Mt 1,1-17) che, cominciando da Abramo e Davide, depositari della promessa, arriva a Giuseppe e, quindi, a Gesù. Per rivelarsi e incontrare l’uomo, per entrare nella nostra storia, Dio poteva scegliere molti modi: ha scelto di coinvolgere una coppia e nascere in una famiglia. Giuseppe non genera Gesù, ma possiamo ugualmente definirlo l’uomo della generazione: non «fa» il Figlio della promessa, ma si apre a riceverlo e ad accoglierlo in dono, per tutti noi. Come Maria.
Uniti, Giuseppe e Maria nel loro amore accolgono e custodiscono il Figlio che dimora con loro e in loro; quel Figlio che un giorno prometterà di dimorare anche in noi. Dio sceglie di immergersi nella quotidianità semplice del legame familiare, benedicendo tutti i legami dell’uomo, della donna e della generazione, mostrando che la Sua strada passa e passerà sempre di lì.
Giuseppe è l’uomo giusto. Egli rappresenta tutti i giusti della terra, «tutti coloro che – afferma Ronchi – prendono su di sé delle vite, vivono l’amore familiare senza enumerare le fatiche, senza contare le paure; tutti quelli che, senza proclami e senza ricompense, in silenzio, fanno ciò che devono fare, tutti coloro che sanno che la loro missione nel mondo è custodire delle vite con la loro vita». Guardando Giuseppe possiamo imparare a riconoscere i giusti che hanno abitato e sempre abiteranno il mondo: «Non super-uomini o super-donne, ma persone ferme nella loro rettitudine», scrive il teologo monsignor Pierangelo Sequeri. «Giuste, nonostante la facilità con cui siamo indotti a preferire il sotterfugio, la furbizia, il compromesso, la prevaricazione persino. Persone semplicemente giuste perché è giusto». Persone grazie alle quali le nostre città stanno in piedi e grazie alle quali anche gli altri possono resistere. È da spiegare ai nostri figli il miracolo dei giusti che tiene in vita le comunità.
Forse qualcuno si chiederà perché Giuseppe è l’uomo che resta in ombra. «Perché non c’è posizione migliore nella vita che quella di stare all’ombra di Dio: è Lui che deve apparire e risplendere», conclude Maggioni. «Se vogliamo essere veri testimoni, gli altri devono guardare e glorificare Dio, non noi: questa è la grande lezione che ci lascia il falegname di Nazareth». Giuseppe resta in ombra anche rispetto a Maria. E quasi ci pare di vederlo, lì, nell’ombra, intimamente felice e commosso anche dell’affetto grande e profondo che riserviamo alla sua amata.
Il Messaggero di Sant’Antonio